Quando viene chiesto a Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace e fondatore della Grameen Bank, il tasso di interesse che applica ai propri prestatari, la maggior parte dei suoi interlocutori si stupiscono. Come si può sostenere di voler combattere la povertà con il microfinanziamento, applicando un tasso di interesse superiore al 20%?Non è scandaloso far pagare così tanto a dei poveri?
Muhammad Yunus non attende nemmeno che gli venga posta la domanda, spiegando che, in qualità di azienda, la Grameen Bank deve coprire i propri costi, ossia pagare il proprio personale, la sua rete di agenzie e la propria infrastruttura informatica per poter raggiungere una clientela numerosa fatta di piccoli clienti sparsi ovunque. Malgrado le perdite siano minime (dal 2 al 3%) con dei prestatari poveri, bisogna integrare il costo del rischio.
Carità o business?
Il tasso del 20% è un tasso medio, che non viene applicato a coloro che sono estremamente poveri, come, ad esempio, i 100.000 mendicanti che la Grameen Bank sta aiutando ad uscire dalla mendicità con prestiti senza interessi.
La principale aspettativa dei clienti consiste nel poter accedere al credito, il che non viene consentito loro dalle banche classiche, a condizioni ampiamente inferiori a quelle degli usurai, che applicano un tasso di interesse fra il 50 ed il 100%. Infine, dato che i clienti sono anche dei depositanti e degli azionisti, sono direttamente interessati alla solidità ed al successo della loro banca di microfinanziamento.
Il dibattito sul modello economico del microcredito, sul fatto che si tratti di carità o di business, è un dibattito vecchio come la finanza stessa. È legittimo che un ente sociale abbia dei guadagni? In caso contrario, come escogitare un modello economico sostenibile? E, nel caso, quale sarebbe il legittimo tasso di guadagno?
Su questo dibattito sia etico che economico, forse può chiarirci le idee la storia della finanza Viene spesso citato Friedrich Raiffeisen come il precursore del microfinanziamento contemporaneo. Il suo operato, in qualità di borgomastro di una città della Renania e fondatore, nel 1849, della “Società di soccorso agli agricoltori bisognosi di Flammersfeld” ha ampiamente contribuito a sollevare gli animi dando ai poveri dei
mezzi finanziari per non dipendere più dalla carità pubblica e poter prendere in mano la propria sorte. Ma risulta ancora più interessante risalire al XV secolo, nell’Italia di Leonardo da Vinci e dei Medici, in cui lo sviluppo dei Monti di Pietà ha scatenato una vera e propria
rivoluzione per quanto riguarda i tassi di interesse, una rivoluzione altrettanto importante quanto la contemporanea scoperta dell’America.
Una controversia teologica
I Monti di Pietà erano istituzioni benefiche di credito che concedevano prestiti a tassi di interesse estremamente bassi a riscontro di oggetti dati in pegno. Si sono sviluppati sotto l’influenza dei Francescani, in particolare di Bernardino da Feltre. Il primo Monte è stato aperto a Perugia nel 1462 e l’idea si è diffusa in tutto il Nord Italia, in particolare a Siena (1472), Genova (1480), Milano (1483), Mantova e Firenze (1484). Ben prima che in Italia, un primo Monte di Pietà era stato fondato a Londra nel 1361 dal vescovo Michael Northburgh, ma ebbe solo un’esistenza effimera, in quanto concedeva prestiti senza interessi…
Lo sviluppo dei Monti di Pietà diede luogo ad una vera e propria controversia fra teologi che dovette essere sedata dall’alto dalla Chiesa, non solo tramite una bolla pontificia, bensì anche tramite la decisione di un Concilio. Schematicamente, i Francescani, che vivevano in uno stato di estrema povertà, erano i promotori dei Monti di Pietà, mentre i Domenicani e gli Agostiniani, custodi del dogma, si opponevano ad essi.
Quali erano le argomentazioni delle parti interessate? I Domenicani e gli Agostiniani difendevano la posizione tradizionale della Chiesa, sancita in occasione dei Concili: Lateranense del 1215, di Lione (1274) e di Vienna (1312), vietando il prestito ad interesse e minacciando di scomunica e di privazione di sepoltura cristiana qualunque persona che lo avesse praticato, riservando de facto tale attività ai banchieri ebrei.
Citavano le Sacre Scritture, in particolare Luca 6-35: “Amate i vostri nemici, e fate del bene e prestate senza sperare nulla in cambio”. Si basavano su Tommaso d’Aquino, condannando il prestito ad interesse come fattore di ingiustizia e considerando il denaro, alla stregua di Aristotele, come una semplice unità di misura degli scambi. In effetti, Aristotele faceva differenza, fondamentalmente, fra l’economia e ciò che chiamava crematistica, ossia l’accumulo di denaro per il denaro, un’attività contro natura che disumanizza coloro che vi si dedicano.
Differenziare il prestito e la custodia dell’oggetto in pegno
A fronte dell’autorità dei grandi filosofi o teologi, i Francescani avanzavano argomentazioni sia pratiche che morali, spiegando che andava fatta distinzione fra due contratti, uno riguardante il prestito, che doveva essere gratuito, e l’altro riguardante la custodia dell’oggetto dato in pegno, che presuppone dello spazio, un’assunzione di responsabilità e quindi un legittimo compenso. Gli insuccessi di alcuni Monti di Pietà a Londra o in Italia andavano a favore di una giusta copertura dei costi, avanzando motivazioni che non erano legate alla natura del contratto:
1) Damnus emergens, perdita subita
2) lucrum cessans, perdita di un potenziale guadagno se il prestatore avesse conservato il proprio denaro
3) periculum sortis, rischio di non essere rimborsati in tempo.
Adducevano inoltre ai vantaggi per il prestatario povero, con tassi del 5% contro quelli dal 20 al 50% degli usurai. Tuttavia, dietro tali ragionevoli argomentazioni si nascondevano a volte motivazioni meno accettabili, ad esempio quella di fare concorrenza agli usurai ebrei per mandarli via dalle città italiane, qualora non si fosse riusciti a convertirli…
Il dibattito restò vivo per oltre 50 anni all’interno della Chiesa. Alcuni avversari dei Monti di Pietà giungeranno addirittura a parlare di “Monti dell’impietà”, come il frate agostiniano Nicola Bariano, autore di un’opera del 1494 intitolata proprio “de Monte impietatis”. Uno degli avversari più risoluti fu il superiore dei Domenicani Tommaso de Vio, che diventerà il Cardinal Caetano e sarà uno dei grandi oppositori di un frate agostiniano ribelle rispondente al nome di Martin Lutero. Per contro, alcuni Domenicani come Savonarola a Firenze, furono convinti
difensori dei Monti di Pietà.
In ultima istanza, gli avversari fecero appello al Papa, Leone X, figlio di Lorenzo de Medici. Quest’ultimo aveva sostenuto attivamente l’istituzione di un Monte di Pietà a Firenze, assegnandovi la somma di 500 Fiorini di tasca sua. Facendo distinzione fra tasso di interesse e tasso di usura, Leone X pubblicò la bolla pontificia “inter multiplices” che riconosceva i Monti di Pietà come istituzioni benefiche, i cui tassi di interesse dovevano essere ragionevoli, ossia coprire i costi di esercizio. La decisione del Papa venne sancita alla decima sessione del V Concilio
Lateranense del 1515, che confermò la legittimità dei Monti di Pietà, minacciando di scomunica tutti coloro che vi si fossero opposti.
Il cambiamento del modello economico
In tale contesto, il dipinto riprodotto nell’illustrazione del presente articolo è particolarmente interessante. Si tratta di una pala d’altare di Bartolomeo Montagna dipinta nel 1512 per la chiesa francescana di San Marco di Lonigo nei pressi di Vicenza, ed esposto attualmente al Bode Museum di Berlino.
A destra della Vergine e del Bambin Gesù, Sant’Omobono, un ricco mercante veneziano del XII secolo, distribuisce il proprio denaro ai poveri. A sinistra di Maria, San Francesco d’Assisi ed il suo discepolo Bernardino da Feltre, promotore dei Monti di Pietà. Su di uno stesso dipinto, la visione tradizionale della carità a fondo perduto e la visione estremamente moderna del microfinanziamento fondato su un equilibrio economico sostenibile.
Questo dipinto simbolizza e sintetizza un forte cambiamento del modello economico e morale, che era basato, sino a quel momento, su un doppio paradigma:
1) tasso d’interesse = usura = peccato;
2) carità = dono a fondo perduto = virtù.
A partire dal 1462 e soprattutto dopo il Concilio del 1515, grazie a quei rivoluzionari che furono i Francescani, finirà per nascere un nuovo modello che ci metterà ancora vari secoli prima di essere formalmente accettato. In effetti, l’Enciclica Vix Pervenit del 1745 richiama la dottrina tradizionale di divieto di prestito ad interesse, facendo pieno appello al discernimento pratico dei vescovi.
Sarà l’Enciclica Rerum Novarum del 1891, che condannava “l’usura divorante praticata da uomini avidi di guadagni e da un’insaziabile
cupidigia”, che finirà per rendere accettabile l’applicazione di un tasso di interesse ragionevole.
Quando Kofi Annan, l’allora Segretario Generale delle Nazioni Unite, aveva affermato nel 2005, ossia nel corso dell’anno del microcredito: “il microfinanziamento non è carità, è un vero e proprio business”, il suo punto di vista si ricollegava a quello dei Francescani.
La ricerca di un impatto sociale non significa diventare esenti dalle difficoltà economiche. Al contrario, è proprio integrando tali difficoltà economiche con estremo rigore (controllo dei costi e dei rischi) che si può massimizzare l’impatto sociale, ed è questa la ragione per cui
esiste il microfinanziamento.
Emmanuel de Lutzel
Responsabile Microfinance Groupe,
BNP Paribas